L’Ombra e l’Impronta, Luca Pancrazzi, Ottobre 2018 Potrebbe risultare scontato affermare che il processo concettuale e pratico della fotografia coincida e graviti sulla questione della luce e dell’ombra ma nei fotogrammi questa affermazione calza a pennello. La fotografia con lenti e pellicola è già una cosa diversa, in comune sussistono i supporti di stampa finale e il principio base. I fotogrammi sono nati prima della fotografia, sono una forma speciale di archetipo primitivo e permanente di trasferimento di immagini e dell’immaginazione grafica attraverso la luce, si possono considerare come un calco diretto, un’impronta, con un po’ di mezzitoni dove il bordi vibrano o le trasparenze modulano. Questo linguaggio primitivo e archetipico, si collega alla storia delle avanguardie fotografiche e alla storia della rappresentazione del sé fuori da sé. Come nelle impronte delle mani nelle caverne neolitiche, prime tracce di questa affermazione in termini rappresentativi per mezzo di un’espressione, il disegno, la traccia, l’ombra, la percezione della vibrazione di quell’ombra crea la necessità di fissare l’immagine che ritualizzi questa affermazione atteraverso un atto di consapevolezza comune. Da un altro versante troviamo le impronte impresse sul cemento da figure che si sono trovate a proiettare la propria ombra per mezzo della luce assoluta di un’esplosione atomica. Ad Hiroshima queste tracce si potrebbero considerare l’affermazione ultima di un processo realistico impressionantemente reale e definitivo, al tempo stesso semplice e letale, talmente reale che non smettiamo di sorprenderci della sua semplice efficacia che si imprime nelle menti prima che nel cemento. Ogni impronta fotografica è la traccia di un’esplosione creativa e controllabile, parzialmente. Le tracce dei corpi, degli oggetti, delle cose che Pagano proietta sulla superficie fotografica parlano un linguaggio vitale, non sono semplici composizioni, o nature morte, non paiono bloccate per sempre nella fissità espressiva congelata della fotografia tramite lenti fotografiche e negativi, sono frutto di un’azione diretta sul supporto sensibile, sono ombre luminose che sembrano muoversi e cullarsi al vento di una giornata fresca e assolata. In questi fotogrammi c’è tutta la semplicità di un gesto insieme ad una ricerca compositiva ed a tutta l’eleganza del caos, amministrato con sapienza ed esperienza. Pagano non mette mai in secondo piano altre possibilità come il disegno e la pittura, mentre un certo rigore di matrice meccanica e seriale lo porta ad eseguire tracce ed impronte che talvolta prendono la via della pittura vera e propria, e talaltre rimangono semplicemente dentro un rigore gestuale e minimo, il segno acquista una sua autonomia pur rimanendo uno strumento necessario sempre ai limiti del controllo. Ritengo che le serie di frottage siano molto vicini al suo modo di sentire la fotografia mentre i suoi fotogrammi posseggono qualità pittoriche intrinseche. Mi immagino che ciò avvenga attraverso un movimento produttivo teso al tradire la frontalità del principio in azione che produce un conseguente slittamento tra l’azione ed il pensiero puro, questa è un tipo di visione diagonale che passa dal centro attraversando tutte le questioni linguistiche primigenie del fare artistico. Le ombre proiettano la loro solida assenza del corpo proiettante come la pressione della mano attraverso la grafite premendo sulla carta impressiona i bordi degli oggetti calcati. Proiettare ed impressionare la carta, al buio, nella mancanza di registri di allineamento, o addirittura sopra un’impressione fotografica da negativo è un processo di creazione apparentemente automatico che passa attraverso un grande controllo dei mezzi utilizzati poiché questa azione foto-grafica si svolge al buio, all’interno di un tempo limitato, con un controllo continuamente portato ai limiti e tenuto sul duplice binario creativo e tecnico. L’ebrezza del fuori controllo diviene parte del processo e rende inebriante il risultato. L’ombra non ha un peso, al massimo un vento, mentre l’impronta è sviluppata attraverso la pressione su un materiale ai limiti della resistenza, fragile e delicato come un foglio di carta che non deve essere sopraffatto dall’azione della mano o dalla resistenza del corpo calcato. Abbiamo padri nobili per entrambe queste pratiche espressive, eppure qui si afferma attraverso il lavoro che non ci sia un tempo legato ad una pratica, ma che la pratica appartenga all’uomo (artista) e al tempo (tutto).